Isola di Salina
Alla scoperta dell’isola di Salina e dei suoi tre comuni:
Leni, Malfa, Santa Marina Salina.
Navigando nel tempo a Salina.
“Appresso a l’Insula de Liparj per ponente a uno miglio vi è un’altra insula chiamata le Saline dove sono belissime vigne non da uve per far vino ma sollo da far zebibbi, dove se ne fa en grandissima quantità, de li quali li mercanti ne portano fino a Costantinopoli”.
Un insediamento preistorico testimonia la presenza umana nell’isola sin dagli ultimi secoli del V millennio a.C., di questo sono stati messi in luce, nella seconda metà dello scorso decennio, i resti di una capanna con intorno una grande quantità di schegge di ossidiana importata da Lipari, che attestano la lavorazione all’aperto della preziosa lava vulcanica per ricavarne utensili destinati all’uso quotidiano e all’esportazione verso il Mediterraneo occidentale.
Precedentemente altre tracce attestanti insediamenti umani in epoca preistorica erano state ritrovate in varie località dell’isola i cui reperti sono stati esposti insieme a quelli provenienti dai villaggi coevi delle altre isole dell’arcipelago eoliano, felicemente definito crocevia di civiltà per via della sua posizione geografica che lo pone al centro di rotte commerciali percorse in tutte le epoche, nel Museo di Lipari, la cui collezione archeologica è una delle più ricche ed interessanti del mediterraneo. Nell’età del bronzo, e cioè a partire dall’ultimo secolo del III millennio a.C. circa, anche Salina è stata abitata prima da popolazioni provenienti dalla Grecia continentale, probabilmente gli Eoli delle antiche leggende e poi, dalla metà del millennio successivo, da altre genti provenienti dalla Sicilia, ove fioriva contemporaneamente la cultura di Thapsos.
Una passeggiata nel parco archeologico di Portella, posto su un ripido pendio nel versante est dell’isola, realizzato intorno ai resti di un villaggio di quest’ultimo periodo, oltre a farci ammirare le particolari bellezze naturalistiche e paesaggistiche isolane, ci farà sicuramente giungere gli echi che ci legano al passato, aprendoci degli scenari di particolare suggestione.
Dopo la distruzione di questo villaggio da parte degli Ausoni provenienti dalla vicine coste della Campania e della Calabria, l’isola di Salina sembra sia rimasta disabitata fino alla 50a Olimpiade (580/576 a.C.) quando un gruppo di Greci di stirpe dorica, provenienti da Cnido, si è stabilita a Lipari. I liparesi, coloni dei Cnidi, iniziano a coltivare i fertili terreni di Salina, chiamata dai Greci Didyme = la gemella, come ci tramanda Tucidide, cosicché fin dagli inizi del IV secolo l’isola è stabilmente abitata come le altre isole dell’arcipelago e l’insediamento più importante si è sviluppato nell’attuale Santa Marina. Dalla colonizzazione greca e per oltre un millennio, ci sono stati insediamenti stabili di Greci, Romani e bizantini fino alla conquista araba delle Eolie avvenuta nell’838. Da allora e fino al XVI secolo, l’unica presenza umana nell’isola di Salina è testimoniata dall’insediamento rupestre altomedievale di Serro Perciato nel Comune di Santa Marina.
La conseguente dipendenza economica dall’isola maggiore di Lipari, dovuta alla mancanza di tradizioni comuni nella nuova comunità, ha fine solo agli inizi del XIX secolo, quando un’improvvisa domanda di Malvasia permette agli abitanti di Salina di affermarsi finalmente nei mezzi di scambio: per dieci lunghi anni, infatti, i commissari per gli approvvigionamenti dell’armata britannica, giunta a Messina per fronteggiare la possibile avanzata di Napoleone in Sicilia, richiedono il noto ‘passito eoliano’ sulle tavole dei loro ufficiali. Una domanda così duratura innesca un processo di sviluppo locale tale da permettere all’isola di affrancarsi dall’economia liparese nonché dal suo potere amministrativo.
Tuttavia, nella primavera del 1889, la fillossera invade i vigneti dell’intera Europa e pone fine alla prosperità, l’emigrazione prende piede e in quindici anni la popolazione di Salina si dimezza. (Wikipedia)

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Salina e la malvasia
di Salina
“Appresso a l’Insula de Liparj per ponente a uno miglio vi è un’altra insula chiamata le Saline dove sono belissime vigne non da uve per far vino ma sollo da far zebibbi, dove se ne fa en grandissima quantità, de li quali li mercanti ne portano fino a Costantinopoli”.
Chi scrive è l’abate Gerolamo Maurando che, giunto nell’arcipelago al seguito del pirata Ariadeno Barbarossa nell’estate del 1544, ci dà preziosissima testimonianza dell’esistenza di una florida attività economica a Salina, probabilmente sin dal basso Medioevo. La presenza delle vigne, tuttavia, non deve trarre in inganno facendo credere che, all’epoca, ci fossero sull’isola comunità organizzate. L’incombente e minacciosa presenza dei pirati, aveva spopolato l’isola sin dall’età bizantina e la persistente mancanza di fortificazioni aveva spinto i liparesi a frequentarla soltanto per le cure stagionali delle vigne e per i raccolti, come, scriverà il Campis nel ‘600.
Il ripopolamento vero e proprio di Salina, dopo l’abbandono di molti secoli, parte, molto lentamente, alla fine del 1500, incoraggiato dalle concessioni enfiteutiche del Vescovo di Lipari, desideroso di mettere a coltura le fertili terre del versante orientale e quelle della sella tra i monti; si intensifica nell’ultimo scorcio del XVIII secolo e raggiunge l’apice nella metà dell’800. Nell’arco di 300 anni si ritrovano a vivere insieme, nelle embrionali comunità di villaggio (attorno alle Chiese di S. Marina ad Est, di MM.SS. del Terzito a Sud, di San Lorenzo a Nord, di Sant’Onofrio ad Ovest), uomini e famiglie provenienti dall’intero bacino del basso Tirreno. Attratti dal miraggio della piccola proprietà o soltanto dalla possibilità di un lavoro non episodico, portano con sè storie e motivazioni diverse. Altra è la condizione di coloro che, dal ‘700, si trovano già sull’isola ed hanno una posizione patrimoniale consolidata. Da una comunità composita e priva di comuni tradizioni ci si sarebbe potuti attendere una costante dipendenza dall’isola maggiore, posta a poche braccia di mare ed economicamente strutturata da secoli. E certamente, la vita di Salina rimane legata a quella di Lipari per molti aspetti. Alle soglie del XIX secolo si realizzano improvvisamente le condizioni che permettono alla nuova comunità di affrancare l’economia locale dalla strozzatura operata dai commercianti di Lipari o dell’area dello Stretto i quali, secondo uno stile coloniale, giungono sull’isola e impongono i prezzi. È l’improvvisa crescita della domanda di malvasia nel primo decennio dell’Ottocento che permette ai salinari l’accumulo degli strumenti necessari per l’agognato salto di qualità nei rapporti di scambio. A richiedere la malvasia sono i 10.000 soldati inglesi che a Messina tentano di fronteggiare una possibile avanzata di Napoleone in Sicilia. Per 10 anni i commissari per gli approvvigionamenti dell’armata britannica richiedono il noto passito eoliano “la malvasia” e lo collocano sulle tavole degli ufficiali. Una commessa così duratura innesca il processo di sviluppo dell’economia locale. Nasce una marineria autoctona e una buona parte dei proventi viene reinvestita nella coltura di nuove terre e nel potenziamento dei collegamenti con l’intero Mediterraneo.
Tali investimenti permettono agli abitanti dell’antica Didyme di sfruttare al massimo le potenzialità produttive della loro “feracissima terra” ed ai piccoli armatori di feluche, bovi e marticane di programmare autonomamente il modo di consolidare margini di profitto sempre più ampi. Di porto in porto, commerciano in tutto per investire sull’isola nell’impianto di nuovi vigneti. La crescente ricchezza consente anche alle piccole comunità di villaggio di affrancarsi, a metà dell’800, dal potere amministrativo di Lipari. Nella seconda metà del secolo, si costituiscono le piccole società marittime che armano velieri di stazza ben più consistente, e sono le golette e i brigantini a connotare la nuova espansione. Così, alla soglia degli anni ’80, l’isola si avvia verso i 9.000 abitanti.
Dopo 50 anni di sviluppo e crescente ricchezza la fine del ciclo, però, si avvicina drammaticamente.
Tra il 1870 e il 1885, la fillossera invade l’intera Europa distruggendo i vigneti e, nella primavera del 1889, pone fine alle illusioni degli isolani e di chi pensava che 23 miglia di mare erano troppe anche per un afide.
L’emigrazione parte emorragicamente ed in 15 anni la popolazione si dimezza.
Il ‘900 innesca meccanismi nuovi. Si tentano vie alternative: con le rimesse degli emigrati arrivano la Banca, la Cooperativa di produzione e lavoro, l’Azienda Elettrica ed i vapori della “Eolia”, ma non è sufficiente. Le regole del gioco sono cambiate e le poche miglia di mare che dividono le Isole dalla terra ferma diventano un oceano.
Nell’arcipelago, solo l’industria dell’estrazione della pomice vive nell’alveo dorato del monopolio naturale e dà linfa all’Isola Maggiore, il resto campa assistito o muore.
Così è per la società Eolia di navigazione, nella quale i figli dei padroni marittimi consumano quel che resta dell’antico genio commerciale paterno.
Nasce e prospera protetta dal filofascismo dell’arcivescovo di Messina, mons. Angelo Paino, anch’egli salinaro e appartenente ad una progenie di navigatori. Con la caduta del regime, però, il sodalizio crolla insieme con l’impalcatura economica e politica sulla quale si reggeva.
Bisogna aspettare gli anni ’70 perché si affermi il nuovo modello di sviluppo incentrato sul turismo.
Agli albori della nuova era gli eoliani, decimati da novant’anni di emigrazione, non hanno strumenti culturali sufficienti per affrontare i problemi creati dalla nuova tumultuosa risorsa. Appena giungono i primi guasti ambientali, però, c’è chi si rende conto che l’industria dell’ospitalità ha bisogno di seguire la medesima regola praticata dagli illuminati mercanti di un tempo, cioè di non disperdere il patrimonio e creare lavoro e ricchezza diffusa con le imprese familiari. Ed è su questa strada che oggi, giustamente, molti si incamminano. C’è, tuttavia, un pericolo, quello di pensare al turismo come ad una monocultura, dimenticando che cento anni fa la rovina è giunta per avere puntato tutto su una sola risorsa (la vite). Per questa ragione appare oggi più che mai necessario affiancare ad una corretta industria dell’ospitalità il potenziamento dell’agricoltura pregiata (malvasia e capperi) che, seppure ancora vitale, subisce i contraccolpi della mancanza di una seria programmazione commerciale.
Marcello Saija





Tra le tante cose che attirano l’attenzione, malvasia e capperi sono gli acquisti più comuni e si possono reperire un po’ ovunque. Non è tuttavia facile trovare una buona bottiglia di malvasia, perché la domanda supera di gran lunga la produzione.